Royalties percepite per la concessione del marchio
Sempre più spesso tra le pubblicità che passano on line si parla di risparmi fiscali ottenibili con lo sfruttamento del marchio. Ma è necessario porre particolare attenzione al suo inquadramento e al suo effettivo utilizzo, proprio perché i rischi connessi a questa pratica “commerciale” non vengono adeguatamente misurati.
Il marchio (insieme alla ditta e all’insegna) rappresenta uno dei segni distintivi dell’azienda (o di un suo prodotto fabbricato e/o commercializzato) e può consistere in qualunque segno suscettibile di essere rappresentato graficamente, tra cui emblemi, parole, suoni e forme del prodotto o della sua confezione.
Secondo quanto previsto dalla definizione civilistica dettata dall’art. 2569 codice civile, il marchio è rappresentato da quel segno distintivo avente lo scopo di contraddistinguere tra loro tutti i prodotti ed i servizi messi in commercio nel territorio dello Stato.
Trattasi di un bene immateriale che gode di una protezione illimitata nel tempo e che può essere trasferito sia a titolo definitivo, tramite cessione, sia a titolo temporaneo, tramite licenza d’uso.
La normativa civilistica consente, in virtù delle modifiche recate dal D.lgs. 4/012/1992, n. 480, la circolazione autonoma del marchio, cioè anche separatamente dall’azienda. Tra le modalità di circolazione del segno distintivo, oltre alla cessione, è contemplata la possibilità di concessione in uso a terzi da parte del titolare.
In questo caso il licenziatario acquista il diritto di utilizzare il bene nei limiti delle clausole contrattuali, riconoscendo al concedente – sotto forma di percentuale sul fatturato dei prodotti contrassegnati dal marchio, ovvero da quote di partecipazioni agli utili – specifici corrispettivi, definiti normalmente royalties.
Rilevanza reddituale per la persona fisica titolare del marchio
Tra gli operatori del settore si discute sulla consistenza reddituale delle royalties percepite da una persona fisica operante al di fuori di un’attività commerciale che, dopo aver provveduto alla registrazione del marchio, concede in uso pluriennale ad una impresa i diritti di utilizzazione del segno distintivo.
Una prima tesi emersa tra i commentatori ha avanzato l’ipotesi dell’irrilevanza fiscale dei corrispettivi stante la modifica contenuta nell’art. 53, D.P.R. 22/12/1986, n. 917, che nella sua versione attuale, al contrario di quanto contenuto nel previgente art. 49, comma 2, lett. b), T.U.R. non ricomprende tra i redditi di lavoro autonomo, quelli derivanti “…dall’utilizzazione economica dei marchi di fabbrica e di commercio”.
Secondo questa lettura interpretativa, stante la lacuna normativa, i corrispettivi generati dalla cessione ovvero dalla concessione in uso del marchio, sfuggirebbero a qualsiasi tassazione.
Altri Autori sostengono una tesi – peraltro non (più) confortata sul piano normativo – secondo cui qualsiasi provento dell’utilizzo dei segni distintivi di una impresa – quindi brevetti, diritti dell’ingegno, e marchi – vadano comunque ricondotti, nell’ambito dei redditi da lavoro autonomo ex art. 53, comma 2, lett. b) del T.U.I.R. e sottoposti a tassazione secondo le regole del comma 8, medesimo art. 53, cioè beneficiando di una deduzione dell’imponibile pari al 25 o al 40 per cento in funzione dell’età del percettore.
Tale importo sconterebbe la ritenuta d’acconto pari al 20 per cento ai sensi dell’art. 25, comma 1, D.P.R. 29/09/1973, n. 600.

Da ultimo, la soluzione, che sembra la più razionale al sistema, adottata dalla prassi edita dall’Amministrazione finanziaria che riconduce i canoni incassati dalla persona fisica alle ipotesi generatrici di reddito diverso ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. 1) del D.P.R. n. 917/96, nell’ambito dei redditi diversi derivanti … dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere…; ciò n virtù dei chiarimenti forniti attraverso le risoluzioni 29/03/2002, n. 198; 11/03/2002, n. 81/E; e 16/02/2006, n. 30/E (anche C.T.R. Veneto, Sentenza n. 534/19).
A tal proposito è stato osservato che la correttezza dell’attrazione impositiva nell’alveo delle ipotesi residuali rispetto alle altre categorie reddituali si desume avuto riguardo alle fattispecie affini delineate al comma 1, lett. g) per l’utilizzazione economica degli altri beni immateriali, quali brevetti, licenze, eccetera, ed al comma 1. Lett. h) per l’affitto o l’usufrutto dell’unica azienda.
Anche in questo caso, il corrispettivo derivante dalla concessione in uso del marchio rimane soggetto alla ritenuta d’acconto nella misura del 20% (art. 25, comma 1, D.P.R. 29/09/1973, n. 600) sull’imponibile calcolato al netto delle spese se specificamente inerenti la produzione del relativo reddito, così come previsto dall’art. 71, co 2, T.U.I.R.
Presupposti per la deducibilità per l’impresa utilizzatrice
I requisiti che devono essere soddisfatti affinché l’azienda utilizzatrice del marchio possa legittimamente dedurre i canoni dal reddito d’impresa sono essenzialmente due:
• la riferibilità del costo all’attività d’impresa;
• il rispetto del principio di congruità della spesa sostenuta;
In primo luogo, va quindi rispettato il principio d’inerenza del costo che, come noto, rappresenta uno dei capisaldi concettuali nella quantificazione del reddito d’impresa.
Ai sensi dell’art. 109, comma 5, D.P.R. n. 917/86, infatti:
“…le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi..”.